Le norme sul raddoppio dei termini decadenziali per l'accertamento dei redditi e la contestazione delle violazioni per l'omessa presentazione del quadro RW, relativamente agli investimenti e alle attività finanziarie detenuti in un paradiso fiscale, hanno natura procedimentale e non sostanziale. Di conseguenza le norme sul raddoppio dei termini hanno efficacia retroattiva e sono applicabili anche nei periodi d'imposta precedenti a quello della loro entrata in vigore. In questi termini si è espressa la Corte di cassazione con l'ordinanza n. 8653 del 16 marzo 2022.
Il fatto
Il contenzioso trae origine dal ricorso proposto da un contribuente avverso un atto di contestazione e di irrogazione sanzioni emesso dall'Agenzia delle entrate, per l'omessa presentazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi, relativamente alle attività finanziarie illecitamente detenute presso una banca svizzera nei periodi d'imposta dal 2005 al 2007.
A parere del ricorrente gli atti erano illegittimi, perché il raddoppio dei termini, previsto dall'articolo 12, comma 3-ter, del Dl n. 78/2009, non è applicabile ai periodi d'imposta contestati, in quanto precedenti all'entrata in vigore della norma.
Il ricorso è stato accolto sia dalla Ctp che dalla Ctr e, avverso la decisione di secondo grado, l'Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione dell'articolo 12, comma. 3-ter, del Dl n. 78/2009 secondo cui, in ipotesi di violazione dell'obbligo di monitoraggio fiscale, per gli investimenti e le attività finanziarie detenuti in Paesi a fiscalità privilegiata, "i termini di cui all'art. 20 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, sono raddoppiati".
I giudici di piazza Cavour hanno ritenuto fondato il motivo dell'ufficio finanziario e hanno cassato con rinvio la sentenza impugnata.
La norma di contrasto ai paradisi fiscali
L'articolo 12, comma 2, del Dl n. 78/2009, ha introdotto - in deroga a ogni vigente disposizione di legge - una presunzione legale relativa, in base alla quale gli investimenti e le attività di natura finanziaria, detenuti in Paesi a fiscalità privilegiata. o che non attuano lo scambio di informazioni, da parte di un soggetto fiscalmente residente in Italia in violazione delle norme sul monitoraggio fiscale, sono considerati costituiti ai soli fini fiscali mediante redditi sottratti a tassazione.
La ratio della presunzione è rinvenibile nel world wide taxation principle per cui i redditi, che ai soli fini fiscali si presume siano la fonte per la costituzione dell'attività o dell'investimento esteri, devono essere assoggettati a tassazione di tipo personale in Italia, ovunque siano stati prodotti.
In applicazione della norma, l'ufficio finanziario è legittimato a recuperare a tassazione l'intero importo dell'investimento occultato nel periodo in cui lo stesso è affiorato, fatta salva la possibilità, per il contribuente, di dimostrare che il patrimonio accertato non costituisce, in tutto o in parte, reddito sottratto a tassazione, nel periodo d'imposta in cui il patrimonio è stato rilevato o in uno precedente.La decisione sul raddoppio dei termini
I successivi commi 2-bis e 2-ter dell'articolo 12 intervengono sui termini ordinari di decadenza, per l'accertamento dei redditi connessi con la detenzione illecita di capitali in un Paese black list e per la contestazione delle sanzioni relative alla violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale.
In particolare, sono raddoppiati i termini:
- per l'accertamento dei redditi evasi sia ai fini delle imposte dirette (articolo 43, Dpr n. 600/1973) che ai fini Iva (articolo 57, Dpr n. 633/1972)
- per la contestazione delle violazioni inerenti al monitoraggio fiscale (articolo 4, Dl n. 167/1990) riferite agli investimenti e alle attività finanziarie detenuti illecitamente nel Paese a fiscalità privilegiata.
La controversia in commento ruota proprio attorno al tema, già affrontato in sede di giudizio di legittimità, dell'efficacia delle norme sul raddoppio dei termini di cui ai citati commi 2-bis e 2-ter.
Da una parte il contribuente sostiene che le norme non hanno efficacia retroattiva, il che significa che troverebbero applicazione solo per i periodi d'imposta successivi all'introduzione dell'articolo 12 del Dl n. 78/2009. Da qui l'eccepita annullabilità degli atti impositivi relativi ai periodi d'imposta dal 2005 al 2007 per decadenza dei termini (articolo 20, Dlgs n. 472/1997).
La posizione dell'amministrazione finanziaria è invece diametralmente opposta, nel senso di ritenere retroattive le citate disposizioni, quindi applicabili anche per i periodi precedenti all'entrata in vigore del Dl n. 78/2009. La ratio della tesi dell'Agenzia delle entrate trova giustificazione nel fatto di considerare le norme sul raddoppio dei termini norme di natura procedimentale, in quanto misure che non sono dirette a disciplinare il presupposto d'imposta e a incidere sulla posizione sostanziale del contribuente, bensì a regolamentare gli obblighi meramente strumentali alla realizzazione dell'obbligazione tributaria e, dunque, a modificare i soli aspetti della fase attuativa del prelievo fiscale (controllo, accertamento e contestazione).
A tali disposizioni, quindi, al pari di quelle a natura interpretativa, non sono applicabili i principi di legalità e di irretroattività delle leggi tributarie disciplinati, rispettivamente, dall'articolo 24 della Costituzione e dall'articolo 3, comma 1 dello Statuto del contribuente (legge n. 212/2000).
La sentenza in argomento, che accoglie la tesi dell'Agenzia delle entrate, si inserisce nel solco dell'orientamento giurisprudenziale, che considera le norme sul raddoppio dei termini di decadenza per la notifica degli avvisi di accertamento e degli atti di contestazione o irrogazione sanzioni, emessi per l'omessa dichiarazione del patrimonio detenuto in un paradiso fiscale, come norme a carattere procedimentale. Ne consegue la loro applicabilità anche nei periodi d'imposta precedenti a quello dell'entrata in vigore della norma, avvenuta il 1° luglio 2009, indipendentemente dall'applicabilità della presunzione legale, che considera costituti da redditi frutto di evasione le attività non dichiarate.
Oltre a ciò, la pronuncia in esame conferma il principio, oramai consolidato in sede di legittimità, per cui la presunzione di evasione, contenuta nel comma 2 dell'articolo 12, ha invece natura sostanziale e non procedimentale, con la conseguenza che essa non ha efficacia retroattiva. A parere della Corte di cassazione una diversa interpretazione potrebbe pregiudicare l'effettività del diritto di difesa del contribuente, rispetto alla scelta in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione.
In altre parole, le norme sul contrasto ai Paradisi fiscali andrebbero lette su due livelli separati: l'una, contente la presunzione di evasione, a carattere sostanziale irretroattiva e l'altra, attinente al raddoppio dei termini decadenziali, di natura procedimentale a efficacia retroattiva.A parere della Cassazione le due disposizioni, infatti, non andrebbero viste in maniera unitaria sulla base di un nesso di consequenzialità, perché hanno una natura diversa, visto che la presunzione di evasione apporta modifiche sostanziali all'obbligazione tributaria, mentre il raddoppio ha effetto esclusivamente sull'operatività degli uffici finanziari. In precedenti pronunce la sezione tributaria della Corte ha sostenuto inoltre che "la circostanza che la presunzione legale di evasione stabilita dal D.L. 78 del 2009, art. 12, co. 2 non sia suscettibile di applicazione retroattiva agli anni d'imposta antecedenti alla sua entrata in vigore, non preclude all'Ufficio di provare l'esistenza di redditi non dichiarati dal contribuente, anche sulla base di presunzioni semplici gravi, precise e concordanti [...] senza far ricorso alla presunzione in oggetto" (cfr Cassazione, pronuncia n. 29632/2019). da fisco oggi.